Un Giornalista Abruzzese

Da qualche tempo sono più attento al “linguaggio” che alla “comunicazione”.
Ho ricevuto una lettera da un giornalista abruzzese che fa riferimento ad un mio testo pubblicato su http://trasalimenti.blogspot.com, ed ora anche su http://gomorrasl.splinder.com , dal titolo “Abruzzo”.
Uso la parola "testo" volontariamente, non per indicare una genericità di contenuto che al contrario generico non voleva essere. Volevo indicare tratti comportamentali in alcune aree di relazione poco studiate o poco frequentate dal giornalismo, ad esempio l’arte e le varie esposizioni che imperversano e che si accumulano esponenzialmente; come se gli abruzzesi fossero in preda ad una fame predatoria artistico-culturale impellente e irrinunciabile. Se poi tale fluida attività culturale possa avere una utilità pedagogica circa la “civiltà delle buone maniere” abruzzesi e italiane è un altro discorso, seppur filiale degli enunciati principali.
Proprio il giornalismo - un certo giornalismo aduso più ai fochi pirotecnici scandalistici che all’analisi dei fatti o al classico e sempre più desueto “reportage”- mi accusa di esporre “generiche considerazioni”, e di usare “parole e riflessioni che non portano a nulla”.
In ritardo tragicomico circa l’epoca pasoliniana questo giornalista abruzzese mi invita a fornire “nomi, circostanze, eventi, cataloghi, costi, tutto quanto ci possa aiutare in una ricerca dei FATTI.”
Si tratta di un giornalismo seduto davanti ad un computer e che pratica un “copia e incolla” digitale, che probabilmente fa sudatissime o refrigerate ricerche sul web ma non si accorge, o finge di non accorgersi, di quello che accade sotto il suo ufficio, in strada, nel suo quartiere, nella sua città, nella sua regione.
Il minimo che possiamo dire è che si tratta di un giornalismo un po’ “pigrotto”, al massimo piuttosto cieco perché è talmente “imbrigliato” nel suo microcosmo autoreferenziale che ha perso la deontologia professionale del distacco, della distanza critica e forse (ma non vogliamo pensarlo) della libertà, la vecchia e polverosa libertà.
Siamo tutti amici e parenti. Ho bisogno delle prove.
Sono giornalisti che appartengono alla schiera dei S. Tommaso.
La parte finale della secca e breve e-mail del giornalista, con l’incipit di “gentile signore” senza chiamarmi per nome e cognome perché io sono un nulla, si conclude con una furba rotazione salvifica ed autoassolutoria: “Francamente sono a contatto tutti i giorni con chi millanta di sapere e poi non dice. Qui o ci si carica di senso civico o si sprofonda tutti”.
Il senso civico e la responsabilità evidentemente non abitano i luoghi della “comunicazione”, sono tuttavia rintracciabili in quelli del “linguaggio”.
In effetti, il linguaggio del giornalista che mi scrive appartiene, forse inconsapevolmente, a quel sistema che ho tratteggiato nel mio breve “testo”. Lui ci sta proprio dentro. Mi ha dato ragione.
Ecco perché non può capire. È preso al laccio.
Favolisticamente lui potrebbe rovesciare le mie “generiche considerazioni” in qualcosa di più serio, spingendomi nel classico paradosso pinocchiesco di fronte alla scimmia-legge.

Io ho risposto così:

Gentile signore,
mi pare che spetta al giornalismo raccontare o ricercare FATTI.
Se lei per giornalismo intende scrivere sulla pappa già pronta avrà sicuramente le sue buone ragioni.
Le auguro buona ricerca dei nomi, delle circostanze, eventi...
Cordialmente suo…


© vario son da me stesso

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